di Anna Pozzi
rivistamissioniconsolata.it – 1 agosto
2019
Incontro con suor Eugenia Bonetti, una suora contro la tratta
È stata una delle pioniere in Italia della lotta contro la tratta di esseri
umani. Con il suo piglio battagliero, ma anche con la sua capacità di
compassione, suor Eugenia Bonetti si è messa senza indugio al fianco delle
vittime, per riscattarle dalla schiavitù, ma anche per dare loro voce,
denunciando così un fenomeno che molti non volevano neppure vedere. Purtroppo
anche oggi.
Era il 1993, e suor Eugenia Bonetti – missionaria della Consolata, oggi
ottantenne – era appena rientrata in Italia, dopo aver vissuto 24 anni di
missione tra le donne del Kenya.
A Torino, dove era tornata a malincuore, è stata un’altra donna africana ad
aprirle gli occhi con il suo grido di aiuto. Suor Eugenia si è ben presto
accorta che il fenomeno che aveva di fronte non riguardava semplicemente la
prostituzione, ma qualcosa di molto più grave e orribile: tratta e schiavitù.
Da allora ha condotto moltissime battaglie; ha contribuito a togliere dalla
strada oltre 6mila giovani donne, soprattutto nigeriane; ha coordinato a lungo
il network delle religiose italiane che operano nelle case di accoglienza –
l’ex Ufficio tratta donne e minori dell’Usmi -; ha infine fondato
l’associazione «Slaves no More», di cui è presidente, che ha realizzato
un progetto pilota di rimpatri volontari assistiti di donne nigeriane, e che
garantisce, grazie all’impegno di una quindicina di religiose, una presenza
settimanale nel Cpr di Ponte Galeria a Roma (Il Cpr è il Centro di
permanenza per il rimpatrio, ex Cie, Centro di identificazione ed espulsione,
ndr).
Di tutto ciò ha parlato anche in diversi libri, ma la sua figura e il suo
impegno sono diventati particolarmente noti soprattutto dopo che papa Francesco
le ha chiesto di scrivere le meditazioni per la Via Crucis al Colosseo dello
scorso 19 aprile.
Suor Eugenia, che cosa ha significato scrivere quei testi?
«Una grande responsabilità, ma anche un’opportunità unica. Quando ho ricevuto
la telefonata del cardinale Gianfranco Ravasi che mi chiedeva di scrivere le
meditazioni per la Via Crucis sono stata presa di sorpresa. Ho vissuto quel
periodo nella preghiera, ripensando alle parole di papa Francesco che parla di
tratta come di “un crimine contro l’umanità”. Ho pensato che la Via Crucis
potesse scuotere le coscienze e per questo ho accennato a valori come
l’uguaglianza, la fede, la fratellanza, la misericordia, l’amore in tutte le
sue forme (di una madre, di un padre, di un fratello e di una sorella, di un
amico, di un passante, di un soccorritore), l’accettazione del diverso e del
malato, di chi è in difficoltà. Ho fatto tutto attingendo ai molti anni passati
a camminare sulle strade con queste donne, anni in cui le ho ascoltate, ci ho
parlato e le ho aiutate con il sostegno di molte altre religiose e laici».
Su cosa ha voluto insistere?
«Ho cercato di includere tutte le forme di schiavitù presenti nel fenomeno
della tratta, ma soprattutto ho tentato di sottolineare la condizione delle
giovani donne distrutte da questa enorme piaga. Mi è sembrato giusto anche fare
un appello: ai poteri e alla Chiesa affinché si prendano le loro responsabilità
e agiscano mettendo l’essere umano sopra ogni altro valore e principio; alla
società civile che, pur facendo molto deve fare sempre di più; ai clienti che
sono parte attiva del problema».
Non solo storie finite male, però…
«Ho cercato di far riaffiorare anche la speranza, l’Italia del riscatto, di
tutti i volontari e operatori del terzo settore, capaci di stare accanto al
prossimo e di aiutarlo. E di tutti coloro che rispondono alla richiesta del
Signore di mettersi in ascolto dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Mi
sembrava importante anche soffermarmi sulla forza di rinascita delle donne e
sulla loro capacità di lenire il loro dolore e il dolore altrui».
Lei indica nel deserto e nel mare i nuovi cimiteri di oggi. Che cosa
intende?
«Nel deserto e nel Mediterraneo, continuano a morire migliaia di uomini, donne,
bambini: esseri umani bruciati dal caldo del deserto o annegati nel mare, senza
un nome, senza un’identità, privati della dignità e dei diritti che tutti
possediamo, nell’indifferenza quasi totale di paesi che preferiscono non
decidere».
Lei continua a essere impegnata su più fronti, in quanto fondatrice e
presidente dell’associazione «Slaves no More». Che cosa state facendo?
«L’associazione nasce principalmente per aiutare le donne a liberarsi da
ogni forma di violenza; in particolare si concentra sulle vittime di tratta,
costrette a prostituirsi sulle nostre strade. Le attività che porta avanti,
grazie al sostegno di tanti che ci aiutano e ci supportano, vanno dai rimpatri
volontari assistiti in Nigeria alle diverse forme di interventi legati alla
formazione e all’informazione sui temi specifici della tratta. L’associazione
intrattiene strette relazioni di collaborazione anche con le case di
accoglienza delle religiose a Lagos e Benin City (Nigeria)».
E nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria?
«A Ponte Galeria, insieme a un gruppo di suore di molte nazionalità e
lingue diverse, siamo presenti tutti i sabati pomeriggio. Cerchiamo di
accompagnare, con preghiere, feste e canti, le molte donne che, trovate senza
documenti, sono costrette a passare molto tempo lì dentro, spesso senza sapere
che ne sarà di loro. Ponte Galeria è a tutti gli effetti un luogo di
detenzione, con sbarre e cemento, lenzuola di carta, molto freddo e caldo
estremo. E anche tanta solitudine. Qui le donne sono costrette a una condizione
di inattività, costantemente sorvegliate, con una minima possibilità di
contatti con l’esterno, sole con le loro paure e i loro traumi, in balìa degli
eventi. Noi rappresentiamo l’unico momento, durante la settimana, di ascolto,
comprensione e compassione».
Le sembra che in Italia sia cresciuta la consapevolezza circa la tratta
degli esseri umani, e la presenza di schiavi e schiave anche nel nostro paese?
«La tratta e i fenomeni a essa connessa sono cambiati e si sono evoluti, così
come gli interventi a livello legislativo e da parte dell’associazionismo.
Anche la consapevolezza è sicuramente cresciuta ma, oggi, mi sembra che ci sia
una battuta d’arresto. Viviamo in una società consumistica dove i valori sono
il denaro, il prestigio, l’esteriorità e l’apparenza; dove tutto può essere
venduto e acquistato; dove l’essenziale è pensare a se stessi; dove ci viene
istillata la paura del diverso; dove l’odio viene urlato e propagandato. Anche
le nuove leggi sono lo specchio di un pensiero e di un modo di fare che tende
alla divisione, all’odio e alla prevaricazione. Tutto questo non va certamente
nella direzione dell’unione, della fratellanza, dell’aiuto e della comprensione».
Le misure dello stato italiano: un piano anti tratta (e il numero verde)
In Italia esistono un numero verde anti tratta e anche un piano nazionale che
dovrebbero contrastare le gravi forme di sfruttamento presenti sul territorio
nazionale.
Il primo, attivato nel 2000, viene gestito dal 2006 dal comune di Venezia. Il
secondo, è stato finanziato per la prima volta nel 2016 e viene coordinato dal
Dipartimento per le pari opportunità (Dpo) della Presidenza del consiglio dei
ministri. Sono gli strumenti messi in campo dal governo italiano per il
contrasto alla tratta degli esseri umani e la protezione delle vittime.
Il numero verde (800 290 290), in particolare, dopo una prima fase, in cui ha
funzionato con una postazione centrale e 14 periferiche, dal 2006 fa capo a un
unico ente – il comune di Venezia, appunto – che fa riferimento ai vari attori
che, a livello regionale, operano nei progetti anti tratta finanziati dal Dpo.
Sono 21 e coprono tutte le regioni italiane. Il piano è stato rifinanziato lo
scorso primo marzo con 24 milioni di euro per i prossimi 15 mesi. Nel 2018,
sono state assistite 1.914 persone (al 90% donne, in gran parte nigeriane), e
si sono registrate 820 nuove emersioni (l’11,23% minorenni). Nell’88% dei casi
si tratta di vittime di sfruttamento sessuale.
«Il numero verde – spiega Cinzia Bragagnolo che ne è la responsabile –
raccoglie le segnalazioni, ed effettua una prima valutazione del caso, offre
informazioni e orienta sui territori, cercando di favorire l’emersione del
fenomeno e di offrire indicazioni sulle possibilità di aiuto e assistenza.
Innanzitutto, viene fatta una prima valutazione della pertinenza della chiamata
e poi si orientano le persone ai servizi sul territorio. L’obiettivo è di
supportare le vittime di tratta e sfruttamento, ma anche di ottimizzare le
risorse presenti qualora, ad esempio, ci sia bisogno di spostare le persone da
una regione all’altra per motivi di sicurezza o per mancanza di posti in
accoglienza o per incompatibilità delle strutture».
Le telefonate arrivano da soggetti diversi. «Possono essere le stesse
potenziali vittime di tratta a chiamare – continua Bragagnolo -, oppure forze
dell’ordine, operatori di progetti, servizi sociali o sanitari. Ultimamente
sono cambiati molto i soggetti segnalanti che afferiscono al numero verde.
Molte chiamate, infatti, arrivano da commissioni territoriali e prefetture o da
Cas e Sprar, in cui sono presenti potenziali vittime di tratta».
Questo perché, da un lato, non sono più state fatte campagne di promozione del
numero verde anti tratta e dunque è poco conosciuto – l’ultima risale al 2016,
seguita da una brevissima campagna nel 2017 -; dall’altro lato, perché il
fenomeno degli sbarchi, in particolare di giovani donne nigeriane potenziali
vittime di tratta, ha inciso significativamente anche su tutto il sistema di
accoglienza.
«In questi ultimi anni – conferma Bragagnolo – nelle prese in carico c’è stato
un grande aumento delle donne nigeriane. Il picco lo si è avuto un paio di anni
fa; adesso, in strada, le donne nigeriane sono tornate a essere circa un terzo,
ma nei progetti del Dpo sono quasi il 90% dei casi. Questo significa che sono
stati probabilmente trascurati altri target, ad esempio, donne provenienti da
altri paesi; soprattutto, però, significa che è stato trascurato un altro
ambito altrettanto preoccupante, quello del grave sfruttamento lavorativo».
Solo tre progetti su 21, infatti, si occupano di questa piaga che ormai non
riguarda più soltanto il lavoro agricolo o il Sud Italia, ma interessa un po’
tutte le regioni e tutti i settori dell’economia del nostro paese:
dall’industria alla logistica, dall’assemblaggio alla ristorazione.
«Ci sono pochi interventi strutturati sul grave sfruttamento lavorativo –
conferma Cinzia Bragagnolo – anche perché è molto difficile operare in questo
ambito. Occorrerebbe un lavoro multi agenzia e in questo momento si è ancora
troppo poco strutturati per essere incisivi su questo fenomeno».
Lo scorso 7 maggio, il sottosegretario con delega alle pari opportunità,
Vincenzo Spadafora, ha presieduto la prima riunione della nuova cabina di regia
per la prevenzione e il contrasto alla tratta degli esseri umani, affiancata da
un nuovo comitato tecnico. La cabina è la sede di confronto e di raccordo
politico, strategico e funzionale tra le amministrazioni statali, la direzione
nazionale antimafia e antiterrorismo, le forze dell’ordine, le regioni e gli
enti locali per la definizione del nuovo piano nazionale anti tratta 2019-2021.
Al comitato tecnico, invece, partecipano soggetti della società civile
direttamente impegnati nel contrasto alla tratta e nella protezione delle
vittime.
«Sarebbe importante – conclude Bragagnolo – che si possa mettere a punto il
prossimo piano nazionale anche alla luce dei nuovi cambiamenti del fenomeno e
delle recenti evoluzioni delle dinamiche della tratta. A mio avviso,
occorrerebbe rivedere le connotazioni del programma di protezione sociale, dal
momento che, in questi ultimi anni, la natura dell’art. 18 è andata in gran
parte persa, poiché la maggior parte delle vittime ha seguito percorsi di
richiesta d’asilo. Ma anche il contrasto alle reti criminali si è affievolito.
Inoltre, bisognerebbe tenere aperto lo sguardo su altre forme di sfruttamento e
non solo prevalentemente su quello sessuale».
Il nuovo piano nazionale anti tratta avrebbe dovuto essere presentato entro
fine giugno, ma probabilmente slitterà di qualche mese.
(A cura di Marco Bello, MC)
Fine