di Maurizio Ambrosini*Avvenire – 22 agosto 2019
Finalmente, dopo venti giorni, i naufraghi della Open Arms sono potuti
sbarcare, grazie a un provvidenziale intervento della magistratura. Il sospiro
di sollievo è legittimo e anche doveroso, ma c’è un aspetto della questione che
merita un approfondimento. Per giorni si è discusso su quanti e quali profughi
stessero abbastanza male da convincere le autorità a lasciarli scendere a terra.
La contesa politico-umanitaria si è trasferita su un terreno che dovrebbe
essere relativamente obiettivo, quello medico, sulla base di diagnosi
contrapposte sulle condizioni delle persone trattenute a bordo.
Il punto è che le questioni dei salvataggi in mare e dell’asilo sono state
dislocate dal piano dei diritti a quello della compassione. Non si tratta più
di diritti umani incoercibili, e quindi di doveri inderogabili per uno Stato
democratico che quei diritti ha liberamente riconosciuto e incorporato nella
propria Costituzione e in svariati Trattati internazionali. Sono stati ridotti
a situazioni da prevenire e da tenere a distanza il più possibile, e poi
eventualmente da esaminare caso per caso ancora prima che gli interessati
richiedano eventualmente la protezione internazionale.
I criteri surrettiziamente introdotti sono quelli dell’età (i minorenni soli,
ma non quelli che hanno un fratello a bordo), del genere (le donne,
specialmente se incinte o accompagnate da bambini in tenera età), o appunto
delle condizioni di salute (ma con riserve, soprattutto quando il problema
riguarda la sfera psichica, e non è quindi facilmente diagnosticabile).
Uno scivolamento analogo si constata nel ricorso ad altri due argomenti
anti-accoglienza abbondantemente utilizzati dalla rumorosa propaganda
nazional-populista, di fronte ai quali i difensori dei diritti umani mostrano
spesso un certo imbarazzo. Uno è il preteso benessere dei richiedenti asilo,
dotati –si dice– di cellulari ultramoderni, catenine d’oro e monili vari. Anche
in questo caso, i rifugiati dovrebbero far compassione per essere accolti,
recitare la parte dei miserabili privi di tutto per suscitare la nostra pietà.
Altrimenti non sarebbero meritevoli di accoglienza.
Riecheggia la perniciosa idea che la causa delle migrazioni in generale sia la
povertà assoluta, la fame, l’incapacità di provvedere a se stessi, ma l’idea è
ancora più sbagliata quando si tratta dell’asilo: un tempo i rifugiati in
Europa erano soprattutto persone colte, intellettuali, artisti o voci
dissenzienti che appartenevano alle élite dei Paesi di origine.
L’asilo, e a maggior ragione il soccorso in mare, non è motivato dalla povertà
e neppure dalle condizioni di salute, ma è un diritto umano motivato dalla
vulnerabilità delle persone interessate, dai rischi che correrebbero se non
venissero prima soccorse e poi almeno provvisoriamente accolte. L’altro
deprecabile ma insistente argomento polemico indirizzato contro chi si espone a
favore dell’accoglienza, specie quando si tratta di persone note al grande
pubblico, chiama in causa il loro impegno diretto nei confronti dei rifugiati:
“Quanti ne accogli a casa tua?”.
L’ultimo bersaglio in ordine di tempo è stata l’attrice Luciana Littizzetto,
che ha peraltro saputo rintuzzare l’attacco sulla base di un encomiabile
curriculum di impegno sociale. Di nuovo però, la logica sottostante rivela la
sostituzione della compassione ai diritti umani: se ti fanno tanta pena,
accoglili tu, con i tuoi beni e sopportandone il presunto disagio. È come se,
di fronte a chi chiede più attenzione ai malati o alle persone con disabilità,
si rispondesse di provvedere a loro con le proprie sostanze. Surrettiziamente
si abbandona la logica dello Stato sociale, chiamato a rispondere alle varie necessità
– incluse quelle umanitarie – redistribuendo le risorse raccolte con il
prelievo fiscale, per tornare a forme di carità discrezionale.
Di fronte a questo deterioramento della cultura civile oltre che giuridica –
che su queste pagine si è continuato per un verso a denunciare e sottolineare e
per l’altro a contraddire di speranza e buon diritto indicando esempi positivi
e buone pratiche– sorge spontanea una richiesta: se davvero si formerà un nuovo
Governo, improntato a una visione politica ben diversa dal Governo precedente,
ponga tra i suoi primissimi atti un ripristino dell’impegno del nostro Stato
nella tutela dei diritti umani.
*Sociologo, Università di Milano e Cnel