di Elisa Chiari
Famiglia Cristiana – 18 agosto 2019
«Mi riconosco pienamente nell’appello di don Luigi Ciotti sintetizzato nella
frase “La disumanità non può diventare Legge”, perché esprime
principi e valori non negoziabili. Purtroppo il Senato si è dimostrato sordo e
insensibile convertendo in legge, nonostante tutte le opposizioni, il
“Decreto sicurezza bis”».
Esordisce così Gian Carlo Caselli, magistrato in pensione, a lungo impegnato
contro terrorismo e mafie. Tiene a precisarlo prima di rispondere alle domande
che gli abbiamo posto per capire gli effetti delle nuove norme.
Dottor Caselli, di qui in poi, il ministro dell’Interno potrà fermare per
motivi di sicurezza qualsiasi nave?
«Il testo è chiaro, stabilisce che il ministro dell’Interno, per “motivi
di sicurezza”, può vietare ingresso, transito, sosta alle navi che si
trovino in acque territoriali. La formula è così generica che si può farvi
rientrare di tutto a discrezione. Ma più che la lettera della norma, dà da
pensare la “filosofia” che la ispira. I due Decreti sicurezza mi
sembrano da inquadrare in una sorta di difesa tribale della comunità e dei
confini della patria. Quasi vi si leggesse in controluce, senza mai
esplicitarlo: “Che quelli dei barconi affoghino pure, l’importante è che
non calpestino il nostro suolo”. Che cosa si teme?».
Un’invasione, dicono.
«Si richiama l’articolo 52 della Costituzione, riferito addirittura ai casi di
guerra, ma se la minaccia viene da un piccolo “esercito” di
derelitti, non è più minaccia ma qualcosa di diverso. È un trucco linguistico
per mistificare la realtà, è una politica degli annunci».
Si scrivono leggi che promettono cose che non mantengono?
«Il primo “Decreto sicurezza”, con il suo giro di vite sulla
protezione umanitaria, ha avuto un effetto boomerang: l’Ispi (Istituto per gli
studi di politica internazionale) lo ha calcolato in un consistente aumento
degli “invisibili”, costretti alla clandestinità sul territorio
italiano, che per tirare avanti dovranno alimentare il circuito del lavoro nero
o, peggio, darsi da fare in maniere anche più pericolose. Si tratta di un
incremento del 21% nel 2020. Se questa è sicurezza… le parole andrebbero un
po’ rimisurate».
La sanzione da 150.000 a un milione di euro si potrebbe applicare in teorìa
anche al peschereccio che soccorra un uomo in mare?
«L’obiettivo di questi provvedimenti sono chiaramente le Ong (Or-ganizzazioni
non governative), mi pare irreale che si giunga a vietare il transito o
l’approdo a un peschereccio che abbia preso a bordo un naufrago».
C’è contrasto con norme di rango superiore?
«Non faccio più il magistrato, non tocca a me dirlo. Il problema se lo
porranno i giudici chiamati ad applicare la nuova legge, anche se in linea
teorica le criticità ci sono. Intanto un decreto richiede i requisiti di
necessità e urgenza e sull’urgenza ci sarebbe da discutere. Senza scendere nei
particolari, ci sono convenzioni internazionali, norme costituzionali e la
Libia che non è un porto sicuro. Di certo la legge pone problemi di
solidarietà, di rispetto dei diritti e della vita. In passato, non v’è dubbio,
il tema dell’immigrazione è stato sottovalutato, lasciato crescere senza
controllo. Ha cominciato Minniti a mettere un freno, il ministro Salvini ora si
propone, e di per sé stesso il proposito è ineccepibile, di governare la
materia: ma un conto è governare, altro è rinunziare ai principi di umanità e
solidarietà, che sono la sostanza nella nostra Carta. Se si cerca di rendere
quasi impossibile il soccorso dei naufraghi perché si minacciano multe
colossali, arresti, confische di navi, mi pare che il rischio di contrasto con
norme di rango superiore ci sia».
Chi sostiene il testo lo fa affermando che l’obiettivo sono i trafficanti di
uomini.
«I capi delle organizzazioni criminali hanno spesso un nome e un cognome,
magari anche un domicilio conosciuto in Libia. Si potrebbe perseguirli
stabilendo rapporti precisi con quello Stato, che consentano rogatorie
internazionali, ma questo non si fa, salvo poi accusare le Ong di complicità».
La legge si occupa anche di altro: manifestazioni di piazza, violenza negli
stadi. Quali considerazioni le suscita questa seconda parte?
«Non si comprende bene perché i problemi della sicurezza o presunta tale
collegati alle migrazioni debbano essere trattati insieme ai problemi di ordine
pubblico, quali manifestazioni di piazza e tifoserie violente. Sono cose
diverse, meriterebbero forse una trattazione separata».
Entrando nel merito, quali riflessioni si possono fare su questo punto?
«Il settore delle manifestazioni di piazza è delicato e scivoloso: da un lato
bisogna salvaguardare un principio fondamentale della nostra Costituzione che è
la libertà di riunirsi e manifestare il pensiero, dall’altro c’è la necessità
di porre dei limiti per evitare che si procuri danno ad altri e si sconfini
nella violenza. È un tema su cui legiferare con accortezza per non rischiare di
appannare la democrazia. Su questo punto, a stracciarsi le vesti ci saranno
anche quelli che in questi anni hanno praticato il cosiddetto “armiamoci e
partite”: i cattivi maestri che guardavano con indulgenza a chi praticava
violenza di piazza. Il tema della libertà di pensiero mi fa riflettere anche su
un altro aspetto, contiguo: la qualità della nostra libertà di informazione.
Vedo una tendenza all’occupazione, più selvaggia che in passato, degli spazi
televisivi e un ministro dell’Interno che alle domande di un giornalista
risponde dileggiando, senza che scatti nell’immediato la reazione solidale dei
colleghi. Chi governa dovrebbe dare il buon esempio. La qualità di una
democrazia passa anche di lì».